PREGARE
Pregare in italiano – leggo sul vocabolario Il Nuovo Zingarelli – significa “rivolgersi a qualcuno, chiedendo qualcosa con umiltà e sottomissione”. Se però colloco il termine pregare nel contesto religioso, mi accorgo che il suo significato ha uno spettro ampio, con più colori.
Vorrei tentare di osservare l’esperienza del pregare, il suo sorgere e il suo sviluppo, in un tempo come il nostro in cui anche le parole più ricche di senso spesso perdono significanza.
Tutti noi, oggi come ieri, viviamo un intreccio di relazioni che danno senso al nostro vivere. Questo intreccio di relazioni con noi stessi, con chi vive con noi, con l’ambiente, con ciò che accade, definiscono il nostro “esserci”. Non è tanto “l’io sono” che mi definisce, ma “l’io sono qui con voi”, l’io sono qui per vivere insieme l’avventura: il mio esserci appunto che disegna le caratteristiche e il contorno del mio vivere oggi qui, ospite della Madre Terra.
L’intreccio di relazioni vissute definiscono i nostri bisogni materiali, bisogno di cibo, di acqua, di aria, di riposo… e i nostri bisogni spirituali di essere amati, stimati, bisogno di consenso e di futuro.
L’intreccio di relazioni vissute, definiscono e orientano i nostri desideri. Continuamente desideri pullulano nella mente e nel cuore e promuovono interrogazioni, domande, richieste.
Tutto questo mondo di desideri e di domande fanno avvertire in noi un senso di incompiutezza, che deve essere colmato, e ci fanno prendere coscienza dei nostri limiti e del nostro confine. Proprio questa coscienza del limite del confine ci qualificano come creature e figli di… . Il mio esserci è stato a me donato in un tempo e in uno spazio.
La fonte dei desideri è la spinta decisiva verso il fascino delle frontiere, verso l’audacia e il rischio di volerle attraversare. Essi muovono il nostro mondo degli affetti, del nostro voler sapere e del nostro voler fare. Solo gli spiriti sazi – megalomani, palloni gonfiati – non hanno e non possono avere desideri, perché tutti il reale, nella loro visione, coincide con quello che posseggono. Essi rischiano altresì il delirio di immaginarsi onnipotenti.
I desideri, “de-sideris”, hanno a che fare con le stelle e con un salire in alto, oltre le frontiere, per cercare luce, conforto, promessa, esaudimenti. Sono i desideri ad alimentare la preghiera. Nel Vangelo di Luca 18,1-8, la donna vedova desidera giustizia, sfida l’indifferenza del giudice e pertanto lo prega. Nel racconto di Es. 17,8-13, Mosè sfida Jhwh e le mani alzate sono la postura dell’orante. Il desiderio di vittoria su Amalek alimenta la preghiera protratta fino all’esaurimento delle forze.
Quando la terra non basta più per esaudire il desiderio e per sperare in una risposta, tutto il nostro “esserci” si spinge in alto verso il cielo. Con ragione Bob Dylan – a cui è stato conferito giorni fa il Premio Nobel – canta: “Quante colte un uomo deve guardare in alto/prima che possa vedere il cielo?”. (Blowing in the wind).
Se poi uno di noi e noi tutti immaginiamo e crediamo che lassù ci sia un Padre creatore con lo sguardo benevolo rivolto a questa terra, la nostra preghiera si apre a ventaglio. Domande, ringraziamento, stupore, lode prendono forma e voce nel nostro pregare. La preghiera diventa allora amore.
La preghiera ci umanizza nel più vero dei modi, facendoci sentire figli di quel Padre.
Ancora Bob Dylan: “Quante strade deve percorrere un uomo/prima che si possa chiamare uomo?”.
La più bella preghiera cristiana inizia appunto: Padre Nostro che sei nei cieli… .
Domenica, 16 ottobre 2016
don Renzo