NEL RICORDO DI GIGI MERONI, LA “FARFALLA GRANATA”
A 47 anni dalla morte del piccolo grande fantasista del Torino. Aveva solo 24 anni
MARCO LOVATO, 02.11.2014
TORINO – Il 2 Novembre, giornata commemorativa dei defunti, gli appassionati del Calcio spettacolo non possono fare a meno di rivolgere un pensiero di nostalgico affetto anche al grande Gigi Meroni morto tragicamente il 15 ottobre 1967.
Ancor oggi, dopo 47 anni, sul luogo dell’incidente nel passaggio pedonale che divide il viale dal controviale di corso re Umberto, dove si trova un stele in sua memoria, nell’anniversario della sua dipartita si possono osservare persone di ogni età che, volgendo gli occhi al cielo con un malinconico sorriso stampato sul volto, depositano un fiore a ricordo della indimenticabile “Farfalla Granata”.
Ebbene sì, Gigi Meroni era per tutti la “Farfalla Granata”, perché sul campo da calcio si muoveva con un eleganza e una grazia di un altro pianeta, e con la maglia del Toro fece cose straordinarie, che gli permisero di entrare nel cuore di tutti i tifosi di fede granata, e non solo.
Luigi Meroni, conosciuto da tutti come “Gigi”, nacque a Como il 24 febbraio del 1943, da una famiglia modesta. Rimase orfano del padre all’età di due anni,e la madre Rosa, di professione tessitrice, aveva difficoltà economiche nell’allevare i tre figli. Da giovane Gigi, per guadagnare qualche soldo, cominciò a lavorare come disegnatore di indumenti, in particolare di cravatte.
Questa passione per la moda lo seguirà per tutta la vita, ma il vero talento di Gigi era un altro: sui campi da calcio, infatti, grazie alla sua velocità e alla fantasia, faceva impazzire tutti. In particolare tra questi lo notò Benjamín Santos, allora allenatore del Genoa, che lo prelevò dal Como e lo fece esordire in serie A ad appena diciott’anni.
La città di Genova accolse il giovane talento a braccia aperte, e ci mise poco ad innamorarsi di quell’ala che sulla fascia destra faceva magie. Nel biennio trascorso all’ombra della Lanterna Gigi fece grandi cose, e cominciò a farsi conoscere anche al di fuori del campo, grazie alla sua personalità eccentrica e artistica. Sullo scenario di un’Italia bigotta e conformista, Gigi sfoggiava un taglio di capelli simile a quello dei Beatles, un’altra delle sue grandi passioni, vestiva abiti bizzarri da lui stesso disegnati, e girava per le strade della città con al guinzaglio una gallina, divertendosi a guardare le espressioni incredule dei passanti.
Grazie al suo talento calcistico nel 1964 venne acquistato dal Torino per una cifra record di 300 milioni di lire. Fu amore a prima vista tra lui e i tifosi del Toro.
A Torino portò la sua classe, ma anche la sua ragazza, Cristiana, conosciuta ad un luna park a Genova. L’amore per questa ragazza giovane ed affascinante segnerà profondamente la vita di Meroni. Il loro non era un amore semplice. Infatti Cristiana era sposata con un regista, un matrimonio forzato dalla famiglia e mai condiviso da lei, che dovette sfidare i severi costumi dell’epoca per restare accanto al suo amato Gigi. I due andarono a vivere in una mansarda in Piazza Vittorio, e su Meroni cominciarono a piovere diverse critiche per il suo stile di vita. Ma a lui questo non interessava, le sue idee e le sue passioni erano ben più grandi della falsa morale della società borghese degli anni ’60, una morale che Gigi non condivideva e alla quale non si adattava.
E proprio la difesa delle proprie idee e della propria identità portò il numero 7 granata ad un profondo conflitto con l’allora commissario tecnico della nazionale, Edmondo Fabbri, uomo austero e tutto d’un pezzo, il quale non approvava l’eccentrico stile di vita della Farfalla Granata, e gli impose di tagliarsi i capelli; in caso contrario, non avrebbe messo piede in campo con la maglia azzurra.
Eppure Gigi non vedeva il motivo per cui avrebbe dovuto cambiare il proprio look, e decise di non sottomettersi agli ordini del mister, come non si era mai sottomesso alle regole della società borghese. Così ai Mondiali del 1966, durante la partita decisiva contro la Corea del Nord, Meroni rimase in panchina per 90 minuti. Risultato: Italia 0 Corea del Nord 1. Italia eliminata.
Al ritorno in Italia da quella spedizione fallimentare, all’aeroporto di Genova, città che amava ancora Gigi, Fabbri fu accolto dagli insulti e dagli oggetti lanciati da una folla scatenata ed inviperita. Non gli avevano perdonato di aver lasciato in panchina il loro beniamino.
L’Italia non era pronta a quell’ondata di novità e di freschezza che aveva portato Gigi, non solo sui campi da calcio, ma soprattutto al di fuori. Le sue idee e il suo stile di vita erano troppo avanti per una nazione abituata a guardare indietro. E l’Italia accusò il colpo.
Ma la vita va avanti, e Gigi era troppo grande per lasciarsi divorare dai rimpianti e dalla mancata occasione. Continuò a fare ciò che aveva sempre fatto, a vivere la sua storia d’amore con Cristina, a dipingere quadri nella sua mansarda nel centro di Torino, ma soprattutto ad emozionare il pubblico di fede granata con le sue giocate folli e al limite dell’impossibile.
Fino a quella maledetta domenica del 15 ottobre 1967. Allo Stadio Comunale di Torino, il Toro affronta la Sampdoria. Come al solito Meroni sfodera una grande prestazione, e anche grazie ad un paio di suoi assist ben sfruttati da Nestor Combin, attaccante titolare granata e grande amico di Gigi, il Toro batte con il risultato di 4-2 la Samp. L’euforia dei giocatori e dei tifosi granata è alle stelle, e la Farfalla Granata ha cominciato nel migliore dei modi la sua quarta stagione con la maglia del Toro. Il pensiero di tutti è già proiettato alla domenica successiva, quando avrà luogo il derby contro la Juventus. L’entusiasmo è così acceso che l’allenatore del Torino permette ai proprio giocatori di uscire prima dal ritiro post-partita, così da poter passare più tempo con le famiglie. Gigi saluta il suo amico Combin, predicendogli che la domenica successiva segnerà 3 reti nel derby; poi si allontana con Poletti, altro suo amico e compagno di squadra. Si dirige verso un ristorante, oltre corso Re Umberto, per telefonare a Cristiana e dirle di raggiungerlo a casa, perché lui è senza chiavi.
Mentre attraversa il viale il semaforo diventa verde e le macchine cominciano a partire. Lui allora arretra, ma viene colpito da una macchina che proviene dalla parte opposta della strada. I tentativi di soccorso non servono a nulla. La Farfalla Granata non vola più.
La domenica successiva, al cospetto di uno stadio colmo e straziato, in un clima di silenzio surreale, va in onda il 109esimo derby della Mole. Al quindicesimo della ripresa Nestor Combin segna la sua terza rete, e rivolge lo sguardo al cielo, commosso. Una lacrima gli scorre sul viso, mentre pensa al suo amico Gigi, che gliel’aveva predetta, quella tripletta.
Il Toro gioca quel derby con una rabbia agonistica devastante, come se dovesse in qualche modo vendicare la morte di Gigi. Il risultato è netto, 4-0 per i granata. Eppure nello sguardo dei giocatori e dei tifosi non c’è felicità, ma solo un forte dolore per la perdita di un compagno, un amico.
E i tifosi del Toro non hanno mai dimenticato la “Farfalla Granata”, un idolo, ma soprattutto un grande uomo, spazzato via da un destino crudele a soli 24 anni.