UNA GITA AL CASTELLO DI PRALORMO E ALL’ABBAZIA DI VEZZOLANO IN PIEMONTE
La festa di Messer Tulipano 2005 può essere occasione di una gita culturale a Pralormo e dintorni
MARIA GRAZIA SCHIAPARELLI – APRILE 2005
Questa è un’idea per un giro primaverile, al giardino del Castello di Pralormo per la fioritura dei tulipani.
Il Castello si trova oltre Chieri, a pochi km. da Poirino, per l’esattezza tra Poirino e Montà, sulla strada per Alba. Meglio munirsi di una cartina, perché non ci sono molte indicazioni in loco; si può passare ad est di Torino, oltre la galleria del Pino, seguendo l’indicazione per Asti, e poi deviando per Poirino direzione Alba, oppure si può aggirare Torino da Ovest, percorrendo la tangenziale e poi la A21 con uscita a Villanova d’Asti. Da qui proseguire per Poirino. Per l’Abbazia di Vezzolano,al ritorno, andare a Villanova d’Asti, seguire le indicazioni per Castelnuovo Don Bosco, poi cercare le indicazioni per Albugnano; a questo punto qualche raro cartello vi condurrà all’Abbazia. In zona le indicazioni sono molto scarse, nonostante si tratti di una delle più belle chiese romaniche del basso Piemonte.
Il Castello di Pralormo
La prima costruzione del Castello risale al secolo XIII e faceva parte del sistema di fortificazioni dell’astigiano. Nel XVII secolo, la reggente Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, investì Giovanni Beraudo del titolo di conte di Pralormo. Gli eredi del conte amarono molto questa grande dimora e vi apportarono numerose trasformazioni. La Cappella venne edificata nel 1730 su progetto dell’architetto Galletti, e fu poi sopraelevata con un bel salone affrescato da cui si gode una bella vista sulle montagne.
Nel 1840 il conte Carlo Beraudo di Pralormo, ministro dell’Interno di Re Carlo Alberto, affidò all’architetto di corte Ernesto Melano, la ristrutturazione dell’intero edificio. Venute meno le esigenze di difesa militare, il conte desiderava infatti un palazzo di residenza e rappresentanza. Vennero quindi aboliti il fossato e il ponte levatoio, costruiti il portico d’ingresso, un grandioso scalone e venne coperto il cortile centrale, trasformato in un salone a doppia altezza. In quella stessa epoca il piccolo giardino di rose, sul lato sud, citato già nel 1500, venne completamente trasformato in parco all’inglese ad opera dell’architetto Xavier Kurten, già autore del parco reale di Racconigi.
Sul finire del secolo il nipote del ministro, anch’egli di nome Carlo, fece edificare l’Orangerie, la grandiosa Cascina (1875) e la bellissima serra in vetro e ferro dei Fratelli Lefebvre di Parigi. Il parco creato nel XIX secolo è di stile inglese e di gusto profondamente romantico, e contrappone alla mole del castello l’altezza di specie maestose quali cedri, querce e (purtroppo ora perduti per la recente epidemia) gli splendidi olmi, che probabilmente hanno dato il nome al paesino, prato dell’olmo.
I sentieri si snodano con andamenti curvilinei, salvo il viale che costeggia il muro che separa il giardino dalla strada pubblica. I colori degli aceri, dei cedri, dei pruni, dei tassi, dei tigli, dei lillà, delle spiree danno sensazioni diverse al visitatore a seconda delle luci e delle stagioni. È però soprattutto d’estate che il progetto del Kurten rivela tutta la maestria del suo autore, rendendo comunque fresco e delizioso un luogo sito in un territorio totalmente arido.
Caratteristica comune ai progetti che il Kurten disegnò per i giardini di alcune dimore piemontesi è la prospettiva dei grandi viali e delle lunghe distese erbose. A Pralormo egli approfittò dello scenario naturale della catena di montagne che costituisce uno sfondo magnifico, con il panorama dal colle di Cadibona al Monterosa e propose dei tagli sapienti fra gli alberi in modo da godere di alcuni scorci particolari durante le passeggiate nel parco. Una delle meraviglie del giardino, risultato sia della scelta delle piante proposta dal Kurten sia del gusto e passione per i fiori della contessa Matilde Beraudo di Pralormo a fine Ottocento, è la fioritura a rotazione. Trattandosi di un giardino all’inglese, i fiori hanno sempre avuto un ruolo secondario, sono infatti relegati nei siti perimetrali, lungo il muro di cinta o come fiori da taglio in un giardinetto nascosto.
All’inizio dell’inverno il profumo del calicantus quasi stordisce il visitatore, a marzo si è accolti dallo splendido giallo delle forsitzie e poco dopo occhieggiano nei prati narcisi, crocus e violette. Aprile è il trionfo dei lillà, degli ireos, delle boules de neige, dei buissons flamboyants e dei ciliegi giapponesi. Maggio è l’incanto delle peonie: grandi, vellutate, screziate, rosa chiaro o cremisi o bianche perfette, adornano alcuni angoli del giardino e stupiscono per la loro bellezza.
Intanto incalzano le rose, regine dei giardini antichi, presenti a Pralormo già nel 1500, rampicanti, piccole e profumatissime, non rifiorenti, a volte a piccoli cespugli con tanti mazzetti di piccoli fiori rosa ad adornare le uniche due aiuole ovali, capriccio della contessa Matilde che interrompono la linearità dei grandi spazi verdi voluti dal Kurten. Nel parco vi sono due specchi d’acqua nei quali confluiscono le acque piovane raccolte dai tetti del castello, dell’Orangerie e del fabbricato rurale confinante con il parco, e dai viali del giardino. Questo sistema improntato al risparmio delle risorse idriche, essenziale in una zona tanto arida, permette ancora oggi di sopperire al fabbisogno del giardino senza attingere all’acquedotto comunale o ai pozzi. Nelle vecchie fotografie si vedono giardinieri con il carretto a botticella che bagnano i fiori e i bambini di casa Pralormo in posa a cavalcioni dell’asinello che trainava il carretto. Oggi si usa la stessa preziosa riserva d’acqua ma con un moderno impianto d’irrigazione sotterraneo.
A Pralormo, ogni anno, durante il mese di aprile, fioriscono 50 mila tulipani; quella del 2005 è la sesta edizione, arricchita da un nuovo piantamento dello scorso novembre, che richiama anche i giochi olimpici del 2006. Un piccolo viale antico è punteggiato da tulipani botanici, che richiamano i primi giunti in Europa dall’Oriente, e si capirà la storia di questo fiore dal 1300 ai giorni nostri, percorrendo sul retro del castello un sentiero lungo il quale sono state piantate le varie specie, da quelle selvatiche, esili e delicate, che ancor oggi crescono spontanee in natura, una anche nel nostro territorio, fino alle varietà’ selezionate dall’uomo in Turchia, nel XVI secolo, dove erano molto amate, fino agli ibridi del Novecento e dei giorni nostri.
Il visitatore potrà seguire anche una esposizione degli attrezzi d’uso comune in campagna fino all’inizio del Novecento, e i bimbi potranno dedicarsi a simpatici laboratori didattici.
L’abbazia di Vezzolano tra storia e leggenda
La Canonica di Santa Maria del Vezzolano faceva parte di un importante complesso monastico già ricordato in un documento del 1095; degli edifici che componevano il monastero sono arrivati fino a noi la chiesa, il chiostro e la sala capitolare. L’abbazia ha quindi piu’ di novecento anni; le sue origini si perdono tra soria e leggenda; è’ un’ipotesi accreditata che la chiesa esistesse già come cappella privata di un castello poi distrutto, o in forma e dimensioni diverse, nell’VIII secolo.
È invece leggenda l’attribuzione della sua nascita all’imperatore Carlo Magno, che nel 774, dopo la vittoria contro i longobardi Desiderio e Adelchi, fu colto da epilessia per la visione di tre scheletri, poi raffigurati e ancora visibili in uno dgli affreschi che ornano le pareti del chiostro; consultò un’eremita, e per intercessione della Madonna guarì’, e fece edificare l’abbazia. Altra data certa è il 1159, anno in cui fu presa sotto la sua tutela da Federico Barbarossa; era una delle prepositure più ricche e celebri; nel XIV secolo cominciò il declino, l’abbazia fu abbandonata dai canonici agostiniani intorno al 1600, soppressa nel 1787, dichiarata bene nazionale nel 1800 dal governo francese.Nella sua storia più recente figurano una dichiarazione di pubblica utilità, una messa all’asta, il passaggio di proprietà dell’edificio, e della terra pertinente, all’Accademia dell’Agricoltura e, in ultimo, nel 1937, la sua cessione definitiva allo Stato.
Vezzolano è bellissima, se vi fermate ad ammirarla, ora che finalmente sono finiti i restauri e spariti i ponteggi, dall’alto della strada che scende al parcheggio, non potrete fare a meno di contemplare l’armonia del complesso, il campanile a sinistra, come vuole il romanico, i coppi rossi, la campagna intorno, che in primavera è verde punteggiato dai fiori bianche degli alberi di ciliegio. La chiesa fu costruita fra il XII e il XIII secolo, e rimaneggiata in seguito; originariamente era a tre navate, ognuna terminante con un’abside semicircolare; in un’epoca imprecisata, ma comunque antica, la navata di destra fu chiusa, e aperta dal lato opposto, a formare il lato nord del chiostro.
La facciata è molto ricca e complessa, con tre diversi ordini di colonne, i primi due sormontati da architravi, l’ultimo da archetti; nella lunetta del portale, una scultura rappresenta la Vergine in trono con la colomba dello spirito santo, fra l’arcangelo Gabriele e un devoto; in corrispondenza della bifora nel secondo ordine di colonne, il Redentore con Michele e Raffaele. A sinistra un altro bassorilievo raffigura Sant’Ambrogio.
La facciata è decorata da capitelli e statue: due serafini o cherubini e piatti in terracotta decorata, o patere, simbolo dell’ospitalità. Notare il cotto intercalato dagli strati di arenaria, ricchissimi di fossili. L’aspetto dell’interno, con gli archi fra le colonne e le volte a sesto acuto, appartiene al primo periodo gotico. Molto sobria è la decorazione scultorea, che comunque contiene autentici capolavori, come le figure dell’Annunciazione, ai due lati della finestrella centrale dell’abside.
A pochi passi dal portale si ammira uno degli elementi di massimo interesse dell’edificio: il nartece (altrove anche detto jubé alla francese), o ambone, che attraversa tutta la navata maggiore. È una specie di porticato, poggiante su cinque arcate sorrette da colonne con capitelli a foglie e a gemme, sul quale si distende un bassorilevo a due fasce che racconta i trentacinque patriarchi antenati della Vergine. Il colore è azzurrognolo, sembra dipinto con smalti, invece è di calcare lucido. Ai piedi del bassorilievo, a caratteri incerti, si legge che l’opera fu compiuta «regnando Federico Barbarossa, l’anno 1189».
Sono molte le interpretazioni sulle finalità del nartece: la più accreditata fa riferimento alla liturgia antica di separare, in chiesa, i battezzati dai catecumeni; un’altra propone la necessità della divisione, persino nei luoghi di culto, fra nobili e popolani; si suppone che il grande rilievo fosse stato realizzato per una diversa destinazione, e poi sia stato accorciato per essere sistemato nell’attuale posizione.
Sovrasta l’altare un trittico quattrocentesco realizzato in terracotta policroma. Rappresenta la Vergine col Bambino; a destra sant’Agostino, a sinistra una figura barbuta accompagna un devoto inginocchiato in abiti regali (ancora la leggenda ama riconoscere in tale figura Carlo Magno, mentre studi più recenti propendono per Carlo VIII re di Francia).
Dalla chiesa, attraverso una minuscola porta, si accede al chiostro, un angolo di silenzio conservato nei secoli, simbolo dell’antica pace cenobitica. Il chiostro sembra essere stato realizzato in diverse epoche: per primo il portico occidentale, che ha ancora una copertura in legno; poi quello settentrionale, derivato dalla navata destra della chiesa; quindi gli altri due.
Il piccolo giardino all’interno riecheggia ancora la quiete della vita monastica. Spiccano bellissimi capitelli variamente scolpiti con fregi sia classici sia complessi, come quelli recanti scene dell’annunciazione, della visitazione della vergine, della nascita del redentore. C’è anche la rappresentazione di un uomo che dorme e di un altro che scrive: per taluni è la raffigurazione del sogno di San Giuseppe.
Nel porticato del chiostro, lato nord, campeggia il più importante affresco di Vezzolano, una delle più note pitture del Piemonte antico, datata XIV secolo.La raffigurazione è divisa in quattro parti: dall’alto il Redentore con gli emblemi degli evangelisti; Betlemme con la sacra famiglia ed i magi adoranti. Sotto, in posizione centrale, c’è la sezione più affascinante dell’affresco: da un sepolcro scoperchiato si rizzano tre scheletri, un personaggio inorridito (Carlo Magno?) sta davanti a due cavalieri esterrefatti, mentre un monaco lo invita a chiedere aiuto alla Madonna. Ci sono poi altri resti di affreschi, figure di santi, guerrieri e cavalieri, simboli nobiliari ed emblemi degli evangelisti, sulle cui attribuzioni si sono cimentate più scuole di pensiero.
Lasciata la luce del chiostro, la sua solarità e gli abbagli degli affreschi in parte ancora misteriosi, si entra nella foresteria, un ambiente dal ricco soffitto in legno e dalle minuscole finestre a feritoia, recentemente restaurato, dove si può ammirare la mostra permanente del romanico allestita dalla Sovrintendenza alle Belle Arti del Piemonte. Qui l’arte è illustrata e spiegata, qui non ci sono più leggende o interpretazioni. Qui c’è la più esauriente e raffinata documentazione (testi e fotografie) sulle testimonianze di arte romanica rintracciabili a Vezzolano e in decine di minuscole chiesette campestri della provincia astigiana.