FICTION O REALTÀ?
Il vero volto della propaganda nazista nei ghetti ebraici
Giulia Poggio, 16.02.2017
TORINO – Siamo in grado di andare oltre ciò che normalmente si dà per scontato? Abbiamo la capacità di distinguere tra realtà e finzione? Questi sono solo alcuni degli interrogativi sorti a seguito della presentazione inedita del film-documentario “Shtikat Haarchion – Un film incompiuto“, svoltasi il 15 Febbraio presso il Polo del ‘900, in collaborazione con il Gruppo Studi Ebraici, il Goethe-Institut Torino e l’Istituto Salvemini.
La pellicola, vincitrice del premio “World Cinema Documentary Editing Award” al Sundance Film Festival e “Best International Feature Award” al Hot Docs Festival di Toronto, è stata presentata in anteprima mondiale il 25 Gennaio scorso, in occasione della celebrazione del giorno della memoria.
“Un film incompiuto” – spiega Sarah Kaminski, docente di Ebraico Moderno presso l’Università degli Studi di Torino e collaboratrice presso il Gruppo di Studi Ebraici, prende il via dal ritrovamento di alcune riprese cinematografiche effettuate nel 1942 da una troupe di operatori nazisti nel ghetto di Varsavia, con la potente intenzione propagandistica di mostrare al mondo una deviante e sconvolgente immagine del popolo ebraico. I risultati di tali riprese, attualmente conservate presso il Bundesarchiv-Filmarchiv di Berlino, furono ritrovate nel 1954 in un archivio della DDR e presso la Library of Congress di Washington.
Le bobine sono state ricomposte dalla regista israeliana Yael Hersonski, che utilizza le testimonianze di alcune persone che assistettero alle riprese nel ghetto. Tra queste Adam Czerniakow, presidente del Consiglio Ebraico del ghetto di Varsavia e lo storico Emanuel Ringelblum, i cui diari ritrovati contengono diversi riferimenti alle riprese. Presenti nel documentario anche alcuni dei sopravvissuti, nonché uno degli operatori che effettuò le riprese, sottoposto ad un interrogatorio negli anni Settanta. Il risultato è un film potente, frutto di un’attenta ricerca storica e un notevole senso critico.
Il film mostra drammaticamente come i nazisti, parallelamente all’organizzazione dello sterminio del popolo ebraico, si servissero del cinema, come strumento in grado di giustificarne la successiva eliminazione, presentando immagini distorte relative a scene di vita quotidiana nel ghetto. Ebrei vestiti eleganti a cene di lusso o in teatri sfarzosi, protagonisti di vite fasulle e benestanti, che cinicamente scavalcano i cadaveri dei compatrioti ai margini delle strade e sembrano essere del tutto indifferenti alla sofferenza altrui.
Un vero e proprio confronto tra realtà e manipolazione e mistificazione, tanto che i nazisti, notoriamente ossessionati dai documentari propagandistici, scelsero ad hoc chi doveva comparire nel documentario, come doveva essere abbigliato, quali espressioni doveva assumere di fronte alla macchina da presa, manipolandone e costringendone i comportamenti. Allo spettatore attento non sfuggono infatti le espressioni di disagio, panico e terrore, dipinte sui volti degli protagonisti, costretti ad una sconvolgente pantomima sotto la minaccia incombente della tortura e della morte.
Seppur non vengano esibite scene particolarmente violente, il film si rivela sconvolgente e doloroso: il ghetto polacco, colmo di corpi nudi e scheletrici, era infatti la prima fase della “soluzione finale” operata dai tedeschi nei campi di concentramento. Tutto era già stato accuratamente pianificato in precedenza, di fronte all’indifferenza totale del mondo.
La Hersonski ci stimola a riflettere e ad andare a ricercare la verità in profondità, invitandoci continuamente a ricostruire il nostro passato. A differenza di quanto costruito dai tedeschi infatti, le scene più eloquenti sono quelle di chi non ha una voce, di chi è muto: i visi vuoti e affamati degli ebrei che guardano incomprensibilmente in macchina, o la giovane donna, agghindata e ben vestita che esprime tutta la sua vergogna quando è costretta a posare accanto a un mendicante. La domanda che sorge spontanea è allora: fino a che punto possiamo fidarci dei nostri occhi quando non ci sarà più nessuno in grado di testimoniare la verità?
“Forse non esiste una risposta a questa domanda”, chiosa Michele Marangi, critico cinematografico e docentepresso l’Università Cattolica di Milano, “ma è importante continuare a farsi domande, affinché ogni giorno sia per noi il giorno della memoria”.
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