INTERVISTA A PADRE FRANCESCO MONTICCHIO
Cappuccino semplice dal cuore grande, missionario in Mozambico per 28 anni
FLORIANA BENEGIAMO, 04.07.2015
TARANTO – «Era Agosto quando arrivai all’aeroporto di Quelimane, capoluogo della Zambézia, (regione centrale del Mozambico)…» inizia così il racconto di una missione durata 28 anni che vede protagonista un semplice frate e il suo grande cuore.
Parliamo con Padre Francesco Monticchio, frate dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini di Campi Salentina (Puglia) e attualmente parroco della chiesa di San Lorenzo da Brindisi a Taranto.
Dopo un abbraccio di benvenuto, e dopo averci mostrato il suo sito Pacebenemondo.it in cui racconta i momenti più belli del suo cammino cristiano, padre Monticchio inizia a raccontare una storia che parte da lontano, dagli anni 60, e ci conduce in una parte di mondo remota da noi, dalle nostre usanze e abitudini, ma insieme ricca di vita e di prospettive. É la storia di un’esperienza di grande umanità e intensità, quella che leggiamo negli occhi scuri di padre Monticchio, così vivi e mobili mentre inizia a rispondere alle nostre domande.
Iniziando dai primi anni del tuo noviziato e del tuo cammino francescano, qual è stata la tua prima figura di riferimento, che ti avviò all’interno della dimensione missionaria?
«Nell’Agosto 1959 a 17 anni avvenne per me un incontro importante, mentre ero con altri frati miei compagni di noviziato ad Alessano. La prima immagine che ricordo di questa persona è quella di un frate bassino, con la faccia rotonda, serena, un sorriso sfuggente sul suo viso, gli occhi chiari, trasparenti, lucidi, l’abito rattoppato, un “centopezze”, ma pulito, composto, ispirava un’aria di grande serenità. Era Padre Carlo Patano da Triggiano, il padre guardiano del convento e ci diede il benvenuto. Ricordo ancora oggi quanto quel suo abito pulito e rattoppato che solo lui indossava mi pungolava il cuore e mi incuriosiva; la sua sobrietà nell’uso delle cose, la sua povertà ed essenzialità lecompresi solo molto tempo dopo quando ebbi la possibilità di confrontare la sua vita con l’ideale francescano di una povertà di cose e conla libertà del cuore che essa dona».
Dal ricordo dolce che hai emerge vivissima l’ammirazione che quest’uomo era capace di suscitare. Hai altri ricordi di lui ?
«Sì, incrociai Padre Carlo in Mozambico nel 1971, dove lui era arrivato nel 1963 all’età di 50 anni. La sua esperienza e vocazione missionaria era vissuta ad alta tensione, con uno zelo instancabile, un amore forte verso coloro che lui chiamava ‘gli amati fratelli africani’. Ricordo che chiedevamo a lui consigli su come essere dei buoni missionari».
La tua missione in Mozambico quindi ha inizio negli anni ’70?
«Sì era il 1972 quando arrivai a Luabo, una cittadina industriale, sede della Sena Sugar Estates, sul fiume Zambezi e a 70 Km dalla sua foce. Era la mia prima missione. Quel giorno noi giovani missionari, eravamo in 7, ci eravamo dati appuntamento per discutere sul rinnovamento del quadro dirigente della missione che sarebbe avvenuto dopo qualche settimana e per mettere a punto un programma nuovo per la missione. E fu lì che conobbi un’altra figura molto importante e punto di riferimento durante la mia esperienza, Padre Prosperino Gallipoli da Montescaglioso o semplicemente “Pro”. Ascoltavo da lui storie di soprusi, avventure vissute con i coloni portoghesi e con la gente mozambicana, il suo invito forte a non accettare una situazione di secolare sudditanza, a reagire allo “status quo”, per far sentire che qualcosa poteva cambiare. Il missionario deve essere coscienza critica, deve essere chiesa per tutti. Ascoltavo, vedevo con gli occhi, aprivo il mio cuore e imparavo giorno per giorno».
Quali furono i sentimenti e le impressioni suscitate in te dal primo approccio con una realtà così diversa?
«La missione aveva il suo ritmo, bastava inserirsi. Si girava per le scuole, si analizzava il profitto scolastico degli alunni, gli insegnanti-catechisti ci chiedevano di fare le cerimonie pre-battesimali ai bambini e spesso ci sentivamo impacciati davanti a quei marmocchi che sapevano dire a memoria il Pai Nosso (Padre nostro) e L’Ave Maria. Stare a contatto con quella gente ci fece imparare da subito a rispettare gli Akulu (anziani) per la loro grande esperienza di vita. Avevamo imparato ad ascoltare, perché il discorso si nutre di circolarità: avvertivamo il forte senso comunitario del popolo bantu e così apprendemmo da loro la sapienza popolare racchiusa nei proverbi. “Mwendo ubodzi hunabvina gunthe tayu: con una gamba sola non si può danzare”, questo proverbio ci diceva tutto».
E come veniva concepita da queste genti la vostra religiosità?
«Il loro sistema religioso è molto delicato. Dio, l’uomo, il mondo e gli antenati, pur rimanendo ognuno nella sua sfera piena di sacralità, vivono in un rapporto vivo e dinamico senza stonature o falsi moralismi. Capimmo da subito che il mondo in cui ci muovevamo era una cosa organizzata e che, se qualcosa non funzionava (malattia, morte improvvisa, cattivi sogni…), era perché qualcuno aveva sbagliato o si era messo in una posizione errata di fronte al mondo. Intuivamo che stavamo entrando in un santuario vivo, nel quale bisognava sedersi e meditare».
In cosa consistevano i vostri compiti, le vostre catechesi, la vostra evangelizzazione?
«Quando Pro fu eletto Superiore Regolare della missione, sotto la sua guida i missionari tracciarono le linee di una nuova evangelizzazione come risposta ai bisogni reali della gente, come proposta a stimolare le energie più recondite della cultura, come concretizzazione delle spinte umane e spirituali che Cristo propone con la sua vita e parola. Non più una catechesi teorica venuta dall’alto, ma una evangelizzazione che prima di tutto impegna il missionario a conoscere la lingua, le tradizioni religiose, culturali e sociali del popolo, a “farsi” uno del popolo per assumerne i valori e portarli al pieno sviluppo attraverso il messaggio evangelico. La prima conseguenza di queste scelte fu che gli ultimi tre frati arrivati in missione dovevano dedicarsi allo studio di una lingua locale, una delle tante lingue bantu che si parlano nell’area della missione della Zambézia Inferiore. Così dovetti andare nella cittadina di Inhangoma per studiare il Chisena, la variante bantu locale».
C’è un episodio in particolare che per primo ti pose davanti alla bellezza e diversità di quella gente?
«Ce ne sono tanti in realtà, ma tra i primi ne ricordo uno in particolare. Era il mio primo giorno di guida in Mozambico, dovetti accompagnare Padre Cherubino a Morrumbala con la jeep di Padre Patano. L’andata fu facile, ma al ritorno infilai un’altra stradaperdendominella foresta. Ad un certo puntoandai fuori pista e la corsa finì in un fossato. Mi assalì la paura di passare una notte intera nella jeep, ma presto arrivarono quattro persone portandomi cibo e da bere. L’indomani vennero insieme a donne e bambini per sollevare la jeep e aiutarmi a uscire dal fossato, mentre io provavo meraviglia e ammirazione per la tanta benevolenza e ospitalità di questa gente che non mi conosceva affatto. Io non li rividi più. Ma qualcosa era successo in me. E’ stato un evento che ha segnato la mia vita e le mie relazioni con la gente! “Ora conosci il sapore della ospitalità africana! Non dimenticare mai il regalo che ti hanno fatto: le parole della loro lingua e i gesti del loro cuore!”, così Padre Prosperino commentò l’episodio, che definì il mio battesimo Africano».
I primi anni della tua missione coincidono anche da un punto di vista politico con quelli che anticiperanno poi l’autoproclamazione dell’indipendenza del Mozambico il 25 Giugno 1975. Qual’era il ruolo che ricoprivate voi missionari in un clima di tale fervore?
«In quegli anni noi come missionari cercavamo cammini e soluzioni affinché la vita diventasse più umana, più vivibile e meno attanagliata dalle necessità primarie. Spesso le autorità coloniali ci creavano problemi perché erano troppo insospettite per la nostra continua presenza nei villaggi e per una evangelizzazione che rendeva troppo coscienti le persone del loro stato di bisogno e delle cause del loro sottosviluppo. Utilizzavamo il metodo dell’alfabetizzazione di Paulo Freire e della coscientizzazione dell’uomo per condurlo alla lettura della sua situazione e renderlo capace di adoperare i mezzi per uscirne. Era questa la via più giusta per rompere il circolo vizioso dell’analfabetismo e quindi del sottosviluppo. Fu così che proprio a Luabo nacque l’associazione culturale del Nomi, a Chinde nacque il Matugumano, a Derre il Kuyanjana, tutti cammini e associazioni affiancati da frati cappuccini. Nacquero chiese, scuole, radio, ospedali e, più di tutto, nuclei di comunità cristiane ministeriali capaci di gestire se stesse».
Era dunque un’ immagine di presenza missionaria aggiornata, che si confrontava con un realtà che stava cambiando velocemente. Cosa successe invece dopo l’indipendenza del 1975?
«Le utopie delle nuove formazioni politiche e dei gruppi di pressione durarono poco più di un anno e furono cancellate dalla “marcia trionfale” del futuro presidente del Mozambico Samora Moisés Machel, che agì come un colpo di spugna. Dal primo discorso al popolo nel nord del Mozambico cominciò la caduta libera della speranza e l’imposizione di una “realpolitik” marxista-leninista. Non vi era più spazio per la libertà. Le aggregazioni politiche e i movimenti che utopicamente sognavano una nuova politica ridisegnata per un nuovo popolo che si affacciava alla storia dei popoli liberi, si sciolsero come neve al sole davanti alle vere intenzioni dei nuovi signori del popolo. Furono anni difficili, in cui fummo testimoni diretti di tanta crudeltà, di persecuzioni dettate da un ideale sbagliato, durante i quali anche tre miei fratelli furono massacrati e uccisi. In quegli anni però non venne mai meno il nostro entusiasmo di fare, e il desiderio di testimoniare con la parola e con i fatti l’amore perfetto, pieno e incontaminato di Dio».
Ora che il Mozambico, dopo le elezioni del 1994, è guidato da un governo democratico, e l’intera popolazione è finalmente libera dall’oppressione di ogni partito estremista, torna ad affacciarsi una nuova paura … con i jihadisti dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (Isis). Alla luce degli ultimi tragici avvenimenti, qual è il tuo pensiero da uomo cristiano?
«La guerra purtroppo detta le sue leggi inumane. Una volta un militare mozambicano mi disse: quando noi facciamo le retate siamo 100 uomini e occupiamo 2.000 metri di fronte, ogni cosa che si muove può essere un nemico che mi ucciderà e prima che mi uccida lui dovrò farlo io. Questa purtroppo è la legge della guerra di sempre, non si tratta soltanto delle guerre africane che oggi stiamo vivendo o delle guerre arabe. Pensiamo alla guerra dei Trent’anni dopo lo scisma d’Occidente in Europa quando cristiani cattolici e cristiani protestanti si combattevano tra di loro a causa di un principio religioso. È un vero dramma quando l’uomo fa male ad un’altro uomo. Però in tutto questo scenario di violenza voglio sempre avere un pensiero positivo: la pace vincerà! Forse mai come adesso c’è bisogno dell’impegno umano, sociale, cristiano, politico di portare subito attorno a un tavolo coloro che usano la guerra e la violenza per farsi spazio nella storia. Alla fine ogni guerra finisce sempre intorno a un tavolo. Il tavolo delle trattative … e della speranza!».